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Mi servo di questo giornale per chiedere ai suoi lettori un consiglio su una questione che riguarda un numero sempre maggiore di giovani. Cerco di chiarirla il più sinteticamente possibile.
Grazie al lavoro che faccio (insegnante in una scuola superiore), ho l’impagabile privilegio di essere costantemente in rapporto con ragazze e ragazzi e di vedere spesso prolungarsi quel rapporto anche dopo che essi hanno ottenuto la maturità e cominciano a frequentare l’università o a cercare lavoro. Ho, così, avuto modo di rendermi conto che un numero sempre più grande di loro trova all’estero straordinarie occasioni professionali, mentre in Italia si vede offrire solo lavori precari e mortificanti. Una ragazza che qui faceva qualche ora all’Ikea è stata assunta a tempo indeterminato alla Nintendo di Francoforte. Un’altra -aspirante insegnante- ha già avuto modo di insegnare regolarmente per un anno in un liceo francese, mentre qui in Italia deve accontentarsi di due ore settimanali in un corso semivolontaristico di lingue. Un’altra, dopo un Erasmus a Londra, ha trovato l’opportunità di essere assunta là in un prestigioso studio legale. Un ragazzo, più o meno con le stesse modalità, è entrato nella Shell londinese ed ha già incarichi dirigenziali. Un altro fa l’architetto a Madrid. Non parliamo di quello che, subito dopo le superiori, si è iscritto alla Sorbona di Parigi, vi si è mantenuto tranquillamente da solo e ora ha un posto decorosissimo in una affermata rivista edita là… Credo che, oltre ai tanti altri casi che potrei aggiungere io, ne abbiano molti altri simili anche i lettori de “Il Provagliese”. E riguardano sempre gente giovanissima, sotto i trent’anni, di famiglia ‘normale’, senza protettori influenti ne’ raccomandazioni.
Quasi tutti quelli di cui ho parlato hanno compiuto la loro scelta con una specie di senso di colpa. Certo, sono molto gratificati dal fatto di aver ottenuto un lavoro appagante con le proprie sole forze e senza sotterfugi. Ma intimamente gli sembra anche di fare qualcosa di non giusto. Di solito il loro disagio a me lo hanno espresso così: “Sono contenta/o, ma non mi sembra giusto spendermi (e vantaggiosamente!) qui, all’estero, e non dove sono nata/o e cresciuta/o, dove ho imparato quello che so e sono diventata/o quella/o che sono. Mi sembra di essere egoista”. E io, più o meno, rispondo: “Qui non troveresti niente da fare. Se lì hai trovato qualcosa che ti soddisfa e ti convince, va’ avanti tranquilla/o”. Cosa potrei rispondere, sennò? E chi non risponderebbe così? Chi avrebbe il coraggio di consigliare a una ragazza con posto stabile alla Nintendo di tornare a fare la precaria all’Ikea?
Eppure… Eppure, mi rimane il confuso dubbio che loro abbiano una qualche ragione a sentire un confuso senso di colpa. Che la mia risposta, per quanto ovvia e, direi, senza immediata alternativa, sia superficiale, li/le lasci insoddisfatti/e, non sia all’altezza della loro sensibilità e onestà. La cosa mi avvilisce, perché io, essendo adulto e per di più insegnante, dovrei avere il consiglio incontrovertibile, sicuro, a prova di bomba, da offrire. Ma non ce l’ho.
Ecco perché mi rivolgo ai lettori giovani e non giovani di questo giornale, così come ho tentato di fare altre volte con colleghi e amici, senza essere ancora arrivato a capo della faccenda. Non credo di sbagliare, nell’immediato, quando suggerisco a quei giovani di restare tranquilli dove sono. Ma credo di sbagliare, di essere in difetto, perché non so aggiungere altro. Perché non so argomentare seriamente il mio ‘consiglio’ all’apparenza tranquillizzante. Perché non so spiegare come mai qui in Italia la situazione si sia imbastardita, degradata, bloccata a tal punto da non saper offrire un futuro decente alle nuove generazioni, quando, invece, in tutti i Paesi intorno a noi e simili a noi, i giovani italiani trovano opportunità gratificanti. E perché non so cosa suggerire, ne’ a loro ne’ a me stesso, per cambiare in tempi ragionevoli questo stato di fatto. Come mai, perdìo!, da Cristoforo Colombo a oggi, gli Italiani devono andare all’estero per poter fare quello che sanno fare? Non è in questo modo -e, cioè, cacciando o mortificando i giovani per bene e tollerando i lazzaroni, i baiocchi, i ladri e i mafiosi- che ci condanniamo a un destino di servi senza futuro e senza dignità?
Se qualcuno ha qualche idea più chiara, batta un colpo, per favore…
Mi servo di questo giornale per chiedere ai suoi lettori un consiglio su una questione che riguarda un numero sempre maggiore di giovani. Cerco di chiarirla il più sinteticamente possibile.
Grazie al lavoro che faccio (insegnante in una scuola superiore), ho l’impagabile privilegio di essere costantemente in rapporto con ragazze e ragazzi e di vedere spesso prolungarsi quel rapporto anche dopo che essi hanno ottenuto la maturità e cominciano a frequentare l’università o a cercare lavoro. Ho, così, avuto modo di rendermi conto che un numero sempre più grande di loro trova all’estero straordinarie occasioni professionali, mentre in Italia si vede offrire solo lavori precari e mortificanti. Una ragazza che qui faceva qualche ora all’Ikea è stata assunta a tempo indeterminato alla Nintendo di Francoforte. Un’altra -aspirante insegnante- ha già avuto modo di insegnare regolarmente per un anno in un liceo francese, mentre qui in Italia deve accontentarsi di due ore settimanali in un corso semivolontaristico di lingue. Un’altra, dopo un Erasmus a Londra, ha trovato l’opportunità di essere assunta là in un prestigioso studio legale. Un ragazzo, più o meno con le stesse modalità, è entrato nella Shell londinese ed ha già incarichi dirigenziali. Un altro fa l’architetto a Madrid. Non parliamo di quello che, subito dopo le superiori, si è iscritto alla Sorbona di Parigi, vi si è mantenuto tranquillamente da solo e ora ha un posto decorosissimo in una affermata rivista edita là… Credo che, oltre ai tanti altri casi che potrei aggiungere io, ne abbiano molti altri simili anche i lettori de “Il Provagliese”. E riguardano sempre gente giovanissima, sotto i trent’anni, di famiglia ‘normale’, senza protettori influenti ne’ raccomandazioni.
Quasi tutti quelli di cui ho parlato hanno compiuto la loro scelta con una specie di senso di colpa. Certo, sono molto gratificati dal fatto di aver ottenuto un lavoro appagante con le proprie sole forze e senza sotterfugi. Ma intimamente gli sembra anche di fare qualcosa di non giusto. Di solito il loro disagio a me lo hanno espresso così: “Sono contenta/o, ma non mi sembra giusto spendermi (e vantaggiosamente!) qui, all’estero, e non dove sono nata/o e cresciuta/o, dove ho imparato quello che so e sono diventata/o quella/o che sono. Mi sembra di essere egoista”. E io, più o meno, rispondo: “Qui non troveresti niente da fare. Se lì hai trovato qualcosa che ti soddisfa e ti convince, va’ avanti tranquilla/o”. Cosa potrei rispondere, sennò? E chi non risponderebbe così? Chi avrebbe il coraggio di consigliare a una ragazza con posto stabile alla Nintendo di tornare a fare la precaria all’Ikea?
Eppure… Eppure, mi rimane il confuso dubbio che loro abbiano una qualche ragione a sentire un confuso senso di colpa. Che la mia risposta, per quanto ovvia e, direi, senza immediata alternativa, sia superficiale, li/le lasci insoddisfatti/e, non sia all’altezza della loro sensibilità e onestà. La cosa mi avvilisce, perché io, essendo adulto e per di più insegnante, dovrei avere il consiglio incontrovertibile, sicuro, a prova di bomba, da offrire. Ma non ce l’ho.
Ecco perché mi rivolgo ai lettori giovani e non giovani di questo giornale, così come ho tentato di fare altre volte con colleghi e amici, senza essere ancora arrivato a capo della faccenda. Non credo di sbagliare, nell’immediato, quando suggerisco a quei giovani di restare tranquilli dove sono. Ma credo di sbagliare, di essere in difetto, perché non so aggiungere altro. Perché non so argomentare seriamente il mio ‘consiglio’ all’apparenza tranquillizzante. Perché non so spiegare come mai qui in Italia la situazione si sia imbastardita, degradata, bloccata a tal punto da non saper offrire un futuro decente alle nuove generazioni, quando, invece, in tutti i Paesi intorno a noi e simili a noi, i giovani italiani trovano opportunità gratificanti. E perché non so cosa suggerire, ne’ a loro ne’ a me stesso, per cambiare in tempi ragionevoli questo stato di fatto. Come mai, perdìo!, da Cristoforo Colombo a oggi, gli Italiani devono andare all’estero per poter fare quello che sanno fare? Non è in questo modo -e, cioè, cacciando o mortificando i giovani per bene e tollerando i lazzaroni, i baiocchi, i ladri e i mafiosi- che ci condanniamo a un destino di servi senza futuro e senza dignità?
Se qualcuno ha qualche idea più chiara, batta un colpo, per favore…
Franco Pagnoni
In questo caso stiamo parlando di ragazzi che escono da un istituto tecnico, da liceo o altro?
RispondiEliminaCaro Franco, cerco di rispondere, alla mia maniera, al tuo articolo "consigli cercansi" del 5 aprile scorso.
RispondiEliminaSe in Italia abbiamo la classe dirigente più vecchia d'Europa vorrà pur dire qualcosa. Faccio un piccolo esempio, di estrema attualità: a capo di Expo 2015, a Milano, è stato chiamato un senatore della Repubblica (Lucio Stanca, un giovanotto) il quale oltre a mantenere il suo ruolo al Senato, con coseguente adeguato compenso, percepirà un altrettanto sostanzioso stipendio da parte della società Expo 2015. Con buona pace per tutti i giovani che sono costretti ad emigrare per trovare lavoro.
Io un'idea l'avrei ma, temo, sarebbe una mezza rivoluzione anzi, una rivoluzione vera e propria.
Innanzitutto eliminerei una delle due Camere, le province, e un bel pò di Comunità montane, soprattutto quelle intorno ai 200 metri s.l.m.. Eliminerei tutti i politici di professione impedendo ad un cittadino italiano di essere eletto più di tre volte in parlamento. Dimezzerei tutte le retribuzioni dei parlamentari, dei consiglieri regionali e comunali (a caduta), dei boiardi di stato e di tutti i dirigenti statali (quelli che non ci stanno possono sempre dimettersi!). Quando un lavoratore pubblico matura il diritto alla pensione può solo continuare a lavorare nel volontariato, quindi, senza compenso.
Tu, Franco, mi dirai che sono impazzito. Ebbene ti rispondo di si. Si, sono impazzito. Ma, purtroppo, io queste cose le penso veramente e questa volta - per la prima volta - mi sono permesso di esprimerle pubblicamente. Trovo simpatia in questo giornale, mi sono accostato di recente e lo trovo interessante. Complimenti a chi ha avuto l'idea e la sta portando avanti.
Comunque, non rammaricarti per la risposta che hai dato a quei ragazzi, hai risposto bene. Anch'io avrei fatto lo stesso.
Con affetto
Marcello
L’argomento mi interessa e appassiona.
RispondiEliminaUn professore che parla ai sui ragazzi e li consiglia, dopo averli guidati sulla strada dello studio e della cultura, è una scena che vorrei vedere spesso perché va al di là del già complesso ruolo “istituzionale” dei docenti.
Il consiglio dato ai ragazzi di continuare le esperienze lavorative, appaganti, intraprese all’estero è completamente condivisibile dal mio punto di osservazione.
Pur non avendo mai vissuto e lavorato stabilmente all’estero, viaggio spesso in Europa per motivi professionali e mi sono fatto un’idea delle realtà lavorative e sociali che si trovano fuori dall’Italia.
Un’esperienza professionale all’estero, soprattutto se di livello elevato come nei casi citati da Franco, ma anche per incarichi meno altisonanti, costituisce sempre una occasione di crescita e di formazione per le persone.
Prima di tutto imparano alla perfezione una lingua straniera ma, ancora più importante, acquisiscono una mentalità più aperta e moderna. Integrano e completano la propria visione del mondo allargando i propri orizzonti. Imparano a vedere le cose da diversi punti di osservazione.
Secondo me andare all’estero, pur di non accettare le scarse opportunità domestiche, non è indice di egoismo, al contrario; impegnarsi per imparare qualcosa di interessante e appagare la propria voglia di miglioramento professionale ed economico è un valore positivo.
E c’è un aspetto ulteriormente positivo che dovrebbe dissolvere ogni senso di colpa: i ragazzi che, prima o poi, decidono di tornare in Italia dopo un periodo all’estero non potranno che importare nella loro comunità e nelle aziende in cui lavoreranno, una mentalità, una cultura ed una esperienza che sono preziose per l’Italia stessa.
In altre parole, a mio avviso, vivere e lavorare all’estero costituisce addirittura una tappa fondamentale della formazione sociale e professionale delle persone che, in maniera naturale ed automatica, condivideranno e metteranno a disposizione la loro esperienza ad altre persone contribuendo a svecchiare il nostro paese e a portarlo lentamente a livello delle nazioni socialmente più evolute.
A proposito di preparazione sociale e professionale delle persone, mi ricollego al commento di Marcello, molto critico nei confronti della politica nostrana, dominata dai soliti “vecchi” che occupano stabilmente i posti di potere.
In Italia non mancano i giovani intelligenti, prepararti e vogliosi di impegnarsi anche nel sociale.
Si tratta solo di creare le condizioni per cui queste persone possano dare il loro contributo.
Le istituzioni, a partire dai comuni fino ai massimi livelli, dovrebbero incentivare l’attività pubblica degli studenti affidando loro progetti di vario genere e complessità.
L’impegno, per un tempo limitato, nella vita pubblica dovrebbe costituire un’ulteriore tappa della formazione degli studenti stessi, un’esperienza da aggiungere al proprio curriculum vitae.
In questo modo un numero maggiore di giovani si accosterebbe alla vita pubblica garantendo un flusso continuo di nuove idee e facilitando, a medio – lungo termine, il ricambio delle persone che operano nella politica e nel sociale. Con buona pace dei grandi vecchi che potrebbero finalmente godersi il meritato riposo.
Se gli adulti non possono o non vogliono trovare una soluzione in tempi ragionevoli sarebbe bello che i rimorsi di questi giovani emigranti si trasformassero in carburante, in linfa che alimenta un movimento che si sforza di cambiare la situazione dal basso. I giovani potrebbero cambiare la situazione se non agissero agnuno per proprio conto ma si sforzassero di rendere il loro disagio condiviso e condivisibile. Il fatto di cercare altrove la propria migliore sistemazione è bello ma loro stessi manifestano qualche "rimorso". Bisogna che loro si facciano carico, con altri, di cercare di rovesciare un modo di pensare ed agire che non cambierà se non lentissimamente. Franco ed altri che condividono possono cercare di dare consigli, di aiutare ma i giovani debbono volere il cambiamento ed impegnarsi per attuarlo. Diversamente sarà dura ... e lunga.
RispondiEliminaè ovvio, qui in Italia una seria politica giovanile non è stata mai sostenuta; se non solo in sede di campagna elettorale.
RispondiEliminaI giovani, specie quelli del sud Italia, repressi e soffocati da una realtà che non permette loro neppure di vivere scelgono, sulla scia dei predecessori, di andare altrove.
Io penso che non bisogna avere sensi di colpa.... fondamentalmente la mia terra mi ha trattato male,(nonstante io abbia già provato a farle del bene.. Finirò presto i miei studi ed andrò via anche io.
Sostengo moralmente tutti coloro che hanno fatto questa scelta.
sono un 26enne del sudItalia... ho fatto di tutto durante i miei studi e perciò forse ho perso molto tempo, la mia terra non mi ha dato nulla!!
perchè in Italia tutti si credono FURBI!!!!!!!
RispondiEliminagrande PROFE!!!
RispondiEliminalo stesso anonimo di prima
Ricordo che il mio professore di lettere del liceo ci diceva spesso che è necessario guardare alla radice dei problemi, se si vuole cercare di risolverli. E il problema, in questo caso, è il disagio, l'insoddisfazione -generata da questo paese ammorbato e deturpato- che spinge i giovani a cercare uno spazio altrove. Ecco, credo che il punto sia definire ciò che ciascuno, in coscienza, ritiene essere la fonte della propria insoddisfazione: se si è alla ricerca di un posto di lavoro gratificante in un ambiente stimolante, che magari consenta di avere anche una famiglia senza dover fare salti mortali per tirare avanti -sacrosanto diritto di chiunque- una strada può essere andarsene all'estero; se invece è la desolazione del nostro paese la ragione profonda del malessere, sul lungo tempo la "fuga" lascerebbe qualcosa di irrisolto. In quest'ottica, si potrebbe restare -stringendo i denti- per cercare di fare qualcosa qui e vedere come va a finire, o tornare in patria dopo qualche anno in cui si è messo da parte qualche soldo e un po' di sana esperienza.
RispondiEliminaHo usato il termine "patria", ma forse sarebbe più consono col mio pensiero il termine "terra". Questa precisazione per chiarire che, in fondo, a mio avviso, non importa entro che confini uno decida di vivere: alla fine respiriamo tutti la stessa aria, beviamo sempre la stessa acqua, ci nutriamo grazie a un'unica terra; le scelte dei nostri vicini ricadono su di noi e le nostre ricadono sui nostri vicini. Quindi è quasi riduttivo pensare che una persona si debba sentire obbligata a restare in un posto che non le dà respiro soltanto perché è la SUA patria. Una volta che si è trovato un posto per fare bene, per sé e per tutti gli altri, che sia a un chilometro da casa o a mille, entro o oltre un confine, si sta facendo bene, e basta. Qualcun altro, a sua volta alla ricerca di qualcosa che non trovava dove è nato e cresciuto, magari troverà da fare bene nei luoghi che altri in precedenza hanno abbandonato. Non penso dovrebbero esserci vincoli, in tal senso. Resta il fatto che, se una persona sente l'appartenenza alla propria terra, soffre nel vederla corrotta e desidera vederla rinascere ed esprimere tutte le sue potenzialità, anche se non riuscirà a vederne direttamente i risultati, potrà sentirsi comunque gratificata anche solo per averci provato, resistendo.