mercoledì 14 luglio 2010

Novecento Provagliese - Il baco da seta

__________ da Novecento Provagliese ____________________


In questo numero di Novecento Provagliese si narra delle filandére: base di questa attività era l’allevamento del caalér con la relativa produzione di seta, che abbiamo voluto analizzare in questo pezzo.
Nella prima parte del ’900, e in parte fino all’inizio degli anni ’70. praticamente tutte le famiglie di Provaglio, dall’inízio di maggio a fine giugno, allevavano nelle loro case il baco da seta.
Era questa, per i contadini, una risorsa molto importante: in pratica il primo guadagno dopo l’inverno, e a San Pietro, quando i bozzoli erano venduti aile filande Nembri o Filippini di Iseo, si saldavano i primi conti nei negozi e si poteva guardare con un poco più di tranquillità ai futuri raccolti dei campi.


I bachi da seta, erano acquistati ad once, una, due, fino a quàter onse de caalér, per chi aveva notevole spazio e una famiglia numerosa: quàter onse alla fine del ciclo arrivavano a riempire varie scalére. La scaléra era una struttura alta più di due metri, fatta di quattro pali verticali ed altri orizzontali, nella quale si inserivano otto tàule de giunco (si utilizzavano i canèì delle torbiere per costruirle) piane, con bordi in legno ai lati, poste a circa 25 cm l’una sopra l'altra. Sulle tavole erano distribuiti i caalér nelle varie fasi della crescita.


Quasi tutti i provagliesi acquistavano i caalér da Leonardo Ferlinghetti, prenotandoli un mese prima e Leonardo aveva l'abitudine di dare quàter onse piö en spisigì, ’na brachìna, una specie di mancia in più di quantità di caalér; el spisighì, una volta cresciuto riempiva quasi una tavola in più rispetto al previsto, ed era motivo di soddisfazione tra i lavoranti.
Leonardo per fare i piccoli caalér teneva un po’ di galète e, dopo 15 giorni i bruchi diventavano farfalle che fuoriuscivano e depositavano le uova. A questo punto le uova venivano conservate ad una temperatura mite fino all'anno successivo, quando ad inizio aprile erano messe sopra una stufa e con il calore nascevano i nuovi piccoli caalér venduti un tanto all’oncia ai contadini. A volte per risparmiare, questa operazione era fatta dai contadini direttamente in casa, ma non sempre con successo. Di solito, ai primi di maggio, Leonardo avvisava le varie famiglie del paese che i caalér erano pronti da ritirare. Allora si andava con la nostra bursìna e con pèse de lana, ma i s’ciurciàa déter per mia faga ciapà l’aria (se prendevano freddo potevano anche morire). Arrivati a casali mettevarno su una taula ma erano piccolissimi ancora ed occupavano pochissimo spazio; la preoccupazione principale era di tenerli al caldo e per questo d’inverno sa tignìa a mà la legna per i caalér. A questo punto iniziava il lavoro per i contadini, che per quasi 2 mesi, uomini e donne, giorno e notte, dedícavano tantissima parte del loro tempo e del loro spazio vitale, cucina e camere compresi, alla cura del baco da seta che come traspare dal racconto fatto dai nostri interlocutori presenti - Giuseppe Lecchi (Mustacì), la moglie Palmira, Luigia Lecchi, e Pieri Ghitti - erano accuditi e curati alla stregua di neonati da trattare con grande riguardo.


La famiglia Lecchi (i Mustacì) nel 1944


Ogni tre ore, sai sbrufàa de foja, si dava da mangiare la foglia di gelso, per ventiquattro ore al giorno, proprio come i neonati, facendo a turno tra i vari componenti della famiglia.
Essendo ancora piccoli i primi giorni si staccavano le foglie dai rami e le si tagliavano a fettine sottili a mò di radicchio, successivamente si davano le foglie intere, ed alla fine, quando i caalér erano diventati adulti si metteva tutto il ramo con le foglie (àmpule).
Il ciclo di crescita era intervallato da quattro müde, periodi di 10/12 ore durante i quali i bachi dormivano e perciò non mangiavano: ci si accorgeva della müda, perchè, si diceva, la testa dei bachi diventava più bianca. Durante il periodo della müda i contadini i già pulivano le tavole dei bachi da seta dai residui che si depositavano sul fondo e poi li allargavano un po’, per dare loro maggiore spazio.
Finito il periodo delle müde, che durava circa tre settimane, i bachi erano adulti, ed a questo punto venivano tolti dalle tavole attaccati ai rami di gelso, e disposti a terra nei vari locali o logge coperte dalle cascine, sempre comunque al riparo dalla pioggia o dal vento: si creavano i “cavalloni”, cioè mucchi di rami di gelso che aumentavano man mano che i caalér mangiavano ed erano posati a croce per ottenere più spazio e compattezza.
Sui cavalloni i bachi stavano per una decina di giorni, e questo periodo era definito della majàda.
Bisognava tenere le àmpüle di gelso ben diritte, altrimenti i bachi cadevano in basso, non riuscivano più a risalire, quindi non trovando più cibo potevano morire se non erano soccorsi dall’uomo che provvedeva a rimetterli in cima ai cavalloni


Passato il periodo della majàda, la parte la parte anteriore del baco diventava color oro, si diceva che era madür, non mangiava più e iniziava a chiudersi in se stesso. A questo punto si mettevano rami secchi di rovere, felci secche, raisù per “fa el caalér nel bosch”, cioè per creargli l'ambiente ideale per la trasformazione in bozzolo. L’ambiente secco ed asciutto era indispensabile per evitare che le galète andassero a male, diventando falòpe.


A terra si metteva la paglia, sempre per tenere all’asciutto i caalér nel caso questi cadessero in basso. Le falòpe che avevano un odore assai sgradevole, erano raccolte per evitare che contagiassero altri bozzoli, ed erano riutilizzare come cibo per gli animali da cortile.
In pochi giorni il bozzolo era pronto. All|’interno si intravedeva il baco che girava instancabilmente nella galèta dando sfogo a tutte le energie per completare l'opera, e rimpìcciolendosi sempre più fino a diventare un cagnù, come lo defìnivano ì contadini. Quando la galèta diventava dura, significava che era pronta, ed a questo punto si iniziava la raccolta dei bozzoli che dovevano essere poi ripuliti con un’apposita macchinetta dalla spelàia, prestando molta attenzione ad evitare che nel mucchio ci fossero delle falòpe che avrebbero contagiato i bozzoli sani e causato una diminuzione dei compensi da parte della fìlanda.
Anche la spelàia era usata dai contadini, per fare le prepónte, che tenevano un gran caldo. Quelli che erano a magér, dìvidevano il raccolto (un’oncia di caalér poteva produrre fino ad un quilntale di bozzoli) con il padrone, anche se il lavoro era tutto dei contadini!


Un altro aspetto importante legato all’allevamento del baco da seta, era la raccolta delle foglie di gelso. Gli uomini vi provvedevano quasi quotidianamente, ma sfruttando soprattutto le giornate piovose, tornando con grosse fascine, che mettevano ad asciugare prima dell’utilizzo.


La famiglia Ghitti Luigi con la moglie Pieri e sua sorella. lnoltre Isa e Giuseppe Ferlinghetti con Colosio Mauro mentre mondano le galète nel cortile di Casa Ferlinglvetri nel 7965


Questo lavoro era piuttosto pericoloso per il rischio sempre incombente di cadere dall’albero. Per scongiurare questo pericolo, era tradizione bere il giorno di Pasqua un’uovo appositamente raccolto il Venerdi Santo. Succedeva a volte anche che i gelsi non fossero sufficienti per sfamare tutti i caalér, ed allora si doveva acquistarne un po’ anche fuori dal paese. I rami di gelso tagliati a maggio, ricrescevano in parte, tanto che ad Ottobre i contadini raccoglìevano di nuovo le foglie,stavolta togliendole direttamente dal ramo, che era “pelato”, per usarle come pasto per le mucche.


Nell’allevamento dei bachi da seta c’erano, oltre al freddo, altre insidie, ad esempio i topi che se non erano tenuti a debita distanza, li mangiavano, oppure rosicchiavano le galète e poi mangiavano il caalér che era all’ìnterno. Anche i temporali rappresentavano un’insidia, perchè potevano far prendere il sefóch ai caalér. Per questo, si usava bruciare nelle stanze dove erano tenuti i caalér le foglie secche di ulivo, benedetto la Domenica delle Palme.


Il ricordo che trapela da tutte le testimonianze, conferma ancora una volta quanto fosse faticosa la vita contadina in quei periodi: müdà, tridà la foja, pelà, e daga de mangià... Era questa la sintesi quotidiana delle incombenze di chi allevava i caalér, e la simbiosi con i caalér era quasi totale, tanto che poteva capitare anche, come ricorda la Signora Palmira, di trovarsene uno sul velo usato per andare a Messa la Domenica, senza neanche accorgersene.


Intervista e testo di: Giuseppe Ferrari e Mario Onger
Tratto da Novecento Provagliese, numero 8, pp 2-6
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