Chi
non si è fermato al solo titolo, ma ha letto con un minimo di attenzione l’articolo
di Franco Pagnoni intitolato “la parata degli imbecilli”, converrà che si
tratta di un contributo interessante e perciò stesso stimolante.
Così
io l’ho colto e, condividendone profondamente l’indicazione del “cosa fare?”,
cerco di dare il mio modestissimo contributo affinché nasca anche da noi una
qualche forma di laboratorio di idee con l’obiettivo di togliere dalle voraci
mani dei “parrucconi” il controllo delle risorse del mondo e delle nostre vite.
Evito
a chi legge una elencazione sommaria e necessariamente superficiale dei “mali
del mondo”, non perché non sia importante avere una visione il più possibile
chiara e oggettiva della situazione ma perché richiederebbe tempo, spazio,
capacità di analisi e di sintesi che non ho. Mi limito ad osservare che il
malessere è diffuso ovunque, nel mondo. C’è chi si è preso la briga di contare
il numero delle grandi proteste che si sono avute negli ultimi 7/8 anni e ha
verificato che sono ben più di quelle che si ebbero in fasi della storia
definite poi rivoluzionarie, come il 1848, per esempio. Perché siano così
diffuse è subito compreso, credo, e si può riassumere nel termine “globalizzazione”,
termine che può essere declinato in tanti valori positivi e altrettanti
negativi; tra quelli positivi c’è la velocità con la quale viaggiano le
notizie, la grande quantità di queste stesse notizie e soprattutto la capacità
di gran parte degli attori delle proteste di far conoscere le proprie ragioni
eludendo le censure di ogni tipo. Facendo un passo avanti, dovremmo poi
chiederci come mai queste proteste sono spesso sfociate in poco o niente, o sono
durate lo spazio di una moda, o come mai le proteste sono spesso dirette a
mantenere lo status quo, magari mitizzando nostalgicamente il passato recente (spesse
volte gli anni ’70), e di conseguenza si autocondannino alla sconfitta in tempi
rapidi. Forse perché l’evoluzione tecnologica, sempre più veloce, modifica
continuamente i processi produttivi e conseguentemente scardina ogni modello di
società precedentemente costituito. Ma qui per me la questione si fa improba e perciò
mi limito a questa domanda retorica: non è possibile che la scienza, e quindi
la tecnologia, siano alleate dell’uomo e contribuiscano ad eliminare lo
sfruttamento bestiale di centinaia di milioni di persone e lo stato di miseria
in cui si trova un numero altrettanto grande di individui? La risposta positiva
mi sembra scontata, ma forse lo è solo per il modo con il quale ho posto la
domanda.
Oltre
che un termometro del malessere diffuso, le grandi e piccole proteste sparse
nel mondo sono state anche un momento di presa di coscienza da parte di milioni
di persone che si sono giustamente indignate di fronte alle tante e palesi
ingiustizie di un mondo organizzato a vantaggio di pochi (i “parrucconi”). Può
quindi essere, come ho affermato poco sopra, che siano state sconfitte nel loro
obiettivo immediato, ma la presa di coscienza ha prodotto spesso una grande
quantità di organizzazioni dai mille propositi diversi ma con un comun
denominatore di critica radicale a questo modello di sviluppo: sono i “circoli,
laboratori, cantieri, …” di cui parla Franco Pagnoni nel suo articolo.
L’importanza
di questi momenti aggregativi è evidente a quanti hanno a cuore lo sviluppo in
senso democratico di una società sempre più complessa nella quale, forse a motivo
della sua complessità, la democrazia rappresentativa è sempre più in crisi. I
partiti e i sindacati, che sono stati gli strumenti principe di partecipazione della
gente per tutto il ‘900, sono l’espressione più evidente di questa crisi; e non
credo che le ragioni siano da ricercare solo nella pochezza di un ceto
politico-sindacale autoreferenziale. Una delle cause, a mio modo di vedere la
principale, è data dall’incapacità da parte degli stati di governare lo
sviluppo economico. Del resto: come potrebbe uno stato nazionale dettare le
proprie linee di politica economica e sperare di imporle a colossi economici, e
finanziari, sovranazionali? E noi, come possiamo pensare di difendere i
livelli di retribuzione e di condizioni di lavoro, conquistati da pochi anni
nelle nazioni più sviluppate, quando ci sono centinaia di milioni di persone
disposte a lavorare per molto meno e in condizioni inumane pur di sfamare sé
stessi e i propri figli?
Di
fronte a domande per me troppo grandi e a una realtà così complessa da governare,
mi sono convinto che la risposta non possa essere la conquista della “stanza
dei bottoni” da parte di avanguardie illuminate. Non rinuncio all’idea che la
politica, quella buona, debba prevalere sull’economia; che le ragioni della
dignità dell’uomo debbano prevalere su quelle del profitto. E sono anche
convinto che la democrazia rappresentativa, pur con i suoi notevoli limiti, sia
sì da riformare ma anche da salvaguardare in ogni modo; così come sono da
salvaguardare i valori che ne hanno accompagnato la nascita, nell’epoca
moderna, dal ‘700 in poi: che sono i valori della tolleranza, dell’equità
sociale e della cooperazione tra le persone.
Chi
ha avuto la pazienza di leggere questa pagina di riflessioni, ne avrà
individuato i tanti limiti, i tanti temi tralasciati e forse anche la
superficialità con cui sono stati trattati gli argomenti proposti. Sono limiti
che, chi più chi meno, ogni individuo necessariamente ha. Se però questo
individuo si mettesse assieme ad altri, e le riflessioni proprie le facesse diventare
riflessioni collettive; se con altri si organizzasse per ottenere dai vari
specialisti delle chiavi di lettura corrette della realtà, e con altri studiasse
delle possibili alternative alle storture esistenti; se contribuisse alla
nascita di soggetti collettivi e questi riuscissero a mettersi in rete e
collaborare tra di loro, così come accadde nel ‘700; allora potrebbe formarsi
una nuova coscienza collettiva, un “nuovo illuminismo”, che potrebbe avere la
forza di piegare le ragioni del profitto a quelle dell’uomo.
Un
uomo da solo può magari fermare un carro armato, come forse è avvenuto a Piazza
Tien’anmen; una moltitudine può far sì che i carri armati non vengano costruiti
Ugo
Cattaneo
21
aprile 2014